domenica 24 settembre 2017

Julie Driscoll o Julie Tippett? Quando un cognome cambia tutto


Alla fine degli anni '70 sorse in Gran Bretagna un movimento di giovani jazzisti che diede vita a una serie di formazioni e di esperimenti discografici che poi la critica internazionale riunì sotto un'unica definizione: new british jazz. Stiamo parlando di gruppi come i Weather Report, Soft Machine, King Crimson, Colosseum, la Mavishnu Orchestra e di musicisti come Joe Zawinul, Elton Dean, Robert Fripp, Andy Summers e Keith Tippett, John McLaughlin, Jack Bruce ecc. 
Una non trascurabile parte di loro, arsa da una smisurata sete avanguardista, approdò, di lì a pochi anni, a una sorta di negazione del jazz stesso, portando alle estreme conseguenze i concetti stessi di improvvisazione e di libertà espressiva. Negli Stati Uniti, pressappoco nello stesso periodo, nasceva il free jazz, con nomi come Cecil Taylor, Ornette Coleman e Art Ensemble of Chicago a rappresentarlo e a farlo apprezzare in tutto il mondo.
In quegli anni organizzavo concerti tra Terni e Perugia insieme a un amico. Lo facevamo per passione e per la gloria di una sera. Un'agenzia di Amsterdam ci propose di organizzare un concerto di Keith and Julie Tippett. "Fanno free jazz" ci dissero. Dal materiale pubblicitario che ci inviarono capimmo subito che si trattava della mitica Julie Driscoll. Sia io che il mio amico avevamo adorato i suoi dischi insieme a Brian Auger, a cominciare dal primo, Open, che entrambi consideravamo un capolavoro. Era già un mito perché la sua carriera era stata breve e fulminante. Sapevamo che si era sposata con Keith Tippett, ex pianista dei King Crimson, e che era sparita dalle scene da almeno dieci anni. Praticamente si trattava di una rentrée sotto mentite spoglie di una delle voci più amate della storia del pop. Il contratto parlava chiaro anche se era in inglese: non potevamo in nessun modo pubblicizzare l'evento usando il nome di Julie Driscoll. Tale perentoria clausola veniva giustificata, tra le righe, dalla necessità di prendere le distanze dai trascorsi pop della cantante per motivi artistici. Ci arrovellammo per alcune ore usando ogni sorta di additivo per farci venire un'idea che fosse risolutiva. Alla fine trovammo una bella rappresentazione grafica, in puro stile psichedelico, di Julie Driscoll la cui testa di capelli ricci e rossi, oltre ad aver segnato per sempre l'immaginario della nostra generazione, aveva ispirato numerosi artisti.
Con quel disegno altamente evocativo a fare da sfondo al manifesto pubblicitario nessuno avrebbe letto la scritta: Keith and Julie Tippett in concert.
La sera del concerto il teatro Morlacchi di Perugia era pieno come un uovo e molti rimasero fuori. Il mio amico Sergio ed io eravamo entusiasti ed eccitati. Nel pomeriggio avevamo conosciuto Julie, una donna straordinaria, di una sensibilità al limite della fragilità, e Keith, un pazzo visionario in perenne conflitto con il mondo.
Il palco era buio. Udimmo dei passi pesanti e poco dop uno spot illuminò Tippett già seduto al piano con in mano un tubo di plastica rosa shocking. Un mormorio incredulo pervase la platea. Lui si alzò e cominciò a far roteare velocemente quello strano tubo che emetteva un suono continuo molto simile alla sirena di una nave in lontananza. La cosa si protrasse per alcuni interminabili minuti, durante i quali sia io che Sergio invecchiammo a vista d'occhio.
Poi entrò in scena Julie Driscoll in Tippett e scattò un fragoroso applauso. Purtroppo anche lei impugnava uno di quei maledetti tubi. Sergio ed io lo notammo subito. Lo brandiva come una spada e anche lei cominciò a farlo roteare al di sopra della testa. Poi, come se qualcuno glielo imponesse, cominciò a fare degli strani gorgheggi. "Sta scaldando la voce in scena?" Chiesi in italiano al manager olandese che mi sedeva accanto. Non mi rispose.
Dopo almeno dieci minuti di sibili e gorgheggi, finalmente Keith tornò a sedersi al piano. Un brusio di approvazione percorse il teatro e un barlume di speranza tornò a farsi strada nel mio cuore. Sfiorò appena i tasti delle note alte e poi si alzò, aprì il piano e ci mise dentro un oggetto che era comparso improvvisamente tra le sue mani. Tornò a sedersi e cominciò a pigiare sui tasti afoni.  Evidentemente l'oggetto che aveva introdotto impediva alle corde di vibrare. Il risultato sonoro, se possibile, era peggiore di quello dei tubi di plastica.
La performance proseguì sugli stessi agghiaccianti toni per un'altra mezz'ora che Sergio ed io vivemmo come sospesi in un limbo pre catastrofe. Ricordo che pensammo anche di nasconderci o di fuggire. Ma l'epilogo della storia fu sorprendente. L'affetto e l'ammirazione che il pubblico nutriva per Julie Driscoll non era stato intaccato dalla delusione di quella sera, e la gioia di averla comunque vista assolveva anche noi da qualsiasi colpa. Ricordo una donna che, mentre aspettava fuori del camerino, ripeteva piangendo e implorando: "Perché non canta più?" Nella sua voce c'era autentica disperazione e solo in quel momento capii il vero motivo di quella perentoria e inusitata clausola sul cognome.